Nella storia della pittura così come della letteratura troviamo anime nomadi: li conosciamo come artisti-viaggiatori o variamente come viaggiatori-artisti. Immaginiamo i primi a percorrere territori e solcare fiumi per trovare nuove profondità di ispirazione, laddove l’arte è lo scopo finale; i secondi piuttosto amano il viaggio in sé; dunque il viaggio rappresenta la mèta, destinato poi a diventare oggetto di pittura. Labile a tratti la differenza. Certo è che nella ricerca dell’artista cinese Xunmu Wu, il viaggio è diventato la manifestazione stessa del suo essere pittore.
Alle spalle di Wu è una lunga tradizione: in antico si viaggiava lungo i sentieri religiosi, in pellegrinaggi verso le cime dei monti sacri; successivamente mossi dall’ansia di conoscenza. La Cina era presentata come un oggetto da contemplare. Obiettivo del cammino era raggiungere la vetta, dalla quale il viaggiatore poteva emozionarsi per la potenza del vento, per i colori delle nuvole, per la bellezza di un’alba. Di fronte alla natura sconfinata, le sfortune personali potevano essere dimenticate e la vastità dell’universo compiutamente apprezzata e dipinta. Nella letteratura di viaggio ne erano nati esempi mirabili. Penso a Xu Xiake, al tempo della dinastia Ming: a differenza di altri grandi viaggiatori, condottieri, esploratori o mercanti, egli rappresentò la figura del viaggiatore puro - “peregrinare per mille leghe”, “non giungere a destinazione” -, senz’altro scopo se non il viaggio da raccontare.
Questi i precedenti per un artista quale Xunmu Wu, nato a Shangai nel 1947, il quale, dopo decenni di itinerari estremi nel cuore della Cina, ha scelto di rappresentare la natura nei suoi aspetti più selvaggi, sulle orme di tradizioni ancestrali, come interpretate da minoranze ancora testimoni di un patrimonio culturale in via di estinzione. Così, trentenne, egli ha vissuto nel deserto del Gobi e nell'entroterra dei Monti Tianshan per diciassette anni. Vallate e deserti attraversati da tempeste di vento e sabbia, gole profonde incastonate fra i monti, il cielo stellato dei pastori – Starry sky of sheperds, questo il titolo di una delle sue più recenti mostre –, gioie e traversie nella natura più selvaggia si sono fusi nella sua mente di artista. Alla fine degli anni '80, Xunmu Wu parte per una spedizione di sei anni, coprendo remote aree montuose dell’altopiano dello Yunnan-Guizhou per studiare le tradizioni delle culture etniche superstiti. Dopo decenni di vagabondaggio, la percezione della vita di Xunmu Wu arriva infine a trasferirsi in pitture e inchiostri su tele o sottili lastre di ardesia blu o su carte di riso. Ne nascono immagini potenti, che serbano un respiro ancestrale e insieme la percezione di un’epopea universale.
La sua avventura creativa si colloca, a partire dagli anni Novanta, in un momento della storia cinese in cui si riaccende l’attenzione verso le minoranze etniche che, nei luoghi più remoti del Paese, avevano conservato costumi, valori, espressioni artistiche originarie. Occorreva recuperare antichi concetti, in senso puramente estetico: ed ecco gao (l’elevatezza), yi (il ristoro), qing (la purezza), qi (il respiro), qu (il gusto), gu (il distacco), ji (l’eremitaggio), ya (la raffinatezza), relativamente alla pittura intesa come condizione estetica e spirituale. Nasceva così intorno alla cosiddetta New Literati Painting il recupero di antiche tradizioni espresse modernamente, attraverso la conoscenza della pittura occidentale delle neoavanguardie. L’antica identità diventa motore virtuoso per il nuovo.
Dopo avere esposto il frutto di tali ricerche in varie occasioni espositive nel distretto di Shangai e altrove in Cina, dal 2021 Xunmu Wu si affaccia sulla scena europea attraverso la fervida attività di promozione della MA-EC Gallery. Dopo la partecipazione al Present Art Festival di Desio, eccolo vincitore del Fiorino d’argento al Premio Firenze del 2022, quindi all’Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles, nello stesso 2022, poi al Salon des Indépendants presso il Grand Palais Éphémère
di Parigi nel 2023; fino alla più recente mostra personale, Starry sky of shepherds, allestita nelle sale del Museo Giuseppe Scalvini di Desio, in collaborazione con MA-EC Gallery.
Naturalmente dietro tutte queste attività vi è il sostegno del suo mecenate Jiebao Liao, imprenditore di Shanghai e suo più importante ed assiduo collezionista, con cui Xunmu Wu ha intrecciato un rapporto tale che sin dal loro primo incontro ha rappresentato un punto di riferimento sempre costante proprio per l’attrazione che Jiebao Liao ha sempre avuto per l’arte e la pittura.
Attraverso una pittura astratta complessa e materica, di ispirazione informale, vengono evocati cieli e terre, leggende e fantasmagorie apocalittiche. Il gesto istintivo si rarefà nello scorrere del tempo della creazione e si materializza in elaborati strati di differente spessore, che si sovrappongono, elidono, accalcano l’uno sull’altro, fino a liberarsi in una linea, un grumo di colore, un’intuizione formale che si innalza. Appaiono dinamicamente zone di differente densità, ritmo, sonorità, come in una partitura musicale che pare dettata dall’urgenza dell’istinto, ma che ben poco concede all’improvvisazione. Grazie all’uso del colore e delle pennellate, l'artista ottiene così un effetto multidimensionale: sullo sfondo colori freddi che formano un contrasto con il giallo brillante, il rosso e il bianco, e danno all’opera un senso di movimento e di tensione.
Diversi appaiono gli inchiostri su carta: in primo piano si stagliano personaggi misteriosi, muniti di lunghe e minacciose grinfie, mentre ingaggiano una sarabanda furiosa, con le loro nere silhouettes sullo sfondo di scenari apocalittici, rappresentati da vortici di grigi diluiti che lasciano immaginare vallate e deserti spazzati da tempeste di venti furiosi. Viene in mente la descrizione che Marco Polo, attraversando il deserto del Gobi, trascrive ne Il Milione, lo straordinario resoconto dei viaggi in Estremo Oriente che il mercante redige nel lontano secolo XIII. Il veneziano percepisce la presenza degli spiriti che aleggiano in quelle lande estreme, e che invocano il nome dei viandanti, fino a confonderli e smarrirli, allontanandosi dalla strada maestra: “Il deserto è tutto montagne e sabbione e valli, e non vi si trova nulla da mangiare [...] quando l’uomo cavalca di notte per il deserto, gli avviene questo: che se alcuno rimane addietro per dormire o per altro, quando vuole poi andare per raggiungere i compagni [...] ode parlare spiriti nell’aria, ed è fatto disviare talvolta in tal modo che mai non si trova; e molti ne sono già perduti”.
Antiche leggende di quelle terre estreme si materializzano dunque nelle carte di Xunmu Wu, mescolandosi alla panica contemplazione della natura. Deserti e visioni fortemente evocativi, che suggeriscono spazi immensi, solitudine, nudità e distanza, ma anche quel remoto spazio interiore che nessun telescopio può raggiungere, nei suoi insondabili privatissimi misteri.
Claudio Rocca
Direttore dell'Accademia di Belle Arti di Firenze ( 2017-2023)
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